RACCONTI UCRAINI



«Guarda che domenica… guarda che sole… perché dobbiamo fare la guerra?» Con questa frase, di un’insostenibile semplicità, la donna di Kiev mi ha congedato. Non scriverò il suo nome, non voleva nemmeno che mettessi le iniziali. Paura? Ne aveva molta. Tuttavia ha parlato, con gli occhi lucidi e la rabbia nel sangue. La donna di Kiev vive il conflitto da qui, dalle retrovie d’Italia. Ciò non significa che sia al riparo: il figlio, la casa e gli affetti più intimi si trovano nel mezzo della polveriera, nel traffico omicida dei carrarmati. Il figlio dorme poco. Anzi, dorme niente. Ogni mattina chiama la mamma, “sono vivo” le dice… poi riattacca. Con la guerra dentro, l’ansia bastarda e la giacca scolorita, la donna di Kiev si allaccia le scarpe, leva il lucchetto dalla bicicletta e va a lavorare. Mi ha raccontato che ogni mese invia i suoi risparmi a casa, appena fuori dai confini d’Europa. Per quanto assurdo possa sembrare – o per quanto assurdo sia – è così che mantiene i suoi cari. Dietro di lei altre donne, tutte Ucraine, mi osservavano con sospetto. Di tanto in tanto annuivano, celando la commozione sotto le sciarpe. Anche loro hanno figli a est, uno si trova nel Donbass. Ciò significa che è dal 2014 che conosce il rumore delle mitragliatrici. Adagiata sulla panchina c’era una teglia colma di zuppa, odorava di barbabietola. Forse era il Borsch, un piatto di quelle terre, uno di quelli che ti scaldano nelle sere d’inverno. Alla fine, dopo istanti di diffidenza, dopo timide domande, dopo risposte interrotte, un sorriso me lo hanno concesso. Cosa ho fatto per suscitarlo? Nulla, ho solamente pronunciato due parole… «buon appetito». * La seconda persona l’ho incontrata sui banchi di scuola, la stessa in cui lavoro. Ale – utilizzerò il suo diminutivo – è studentessa di un istituto grafico a Saronno. Va in quarta.

L’ho incontrata di mattina, poco dopo l’intervallo, in un’aula vuota al terzo piano. «Hai ancora conoscenti laggiù?» «Tutti» mi ha risposto «nonni, zii, cugini, vivono in Ucraina occidentale, in un paese non molto grande, a ridosso delle montagne. Ogni anno vado a trovarli, mi piace tornare a casa. Le bombe per il momento non sono arrivate fin lì, anche se hanno colpito il borgo a fianco, distante solamente trenta chilometri. Per questo c’è molta tensione in paese, c’è allerta…». Parlava lentamente, soppesando ogni frase. Le ho chiesto di Volodymyr Zelensky. «All’inizio i miei genitori non erano entusiasti della sua presidenza. 

Un comico, uno showman, eletto a guida del Paese? Il consenso era tutt’altro che unanime», mi ha spiegato. Ma la crudezza della guerra annichilisce la dialettica politica. Ci si stringe intorno al dramma del proprio paese. Lo spettro di Putin ha unificato la nazione. E soprattutto, Zelensky è rimasto… Ale non guarda i telegiornali italiani, «hanno aperto un canale ucraino su YouTube attivo ventiquattrore su ventiquattro, è da lì che seguo la guerra. Resto sveglia fino a tardi per sentire le notizie.» 

«So che la tua famiglia si è mobilitata per aiutare i vostri connazionali sfollati… ti va di raccontarmi qualcosa?» «Mio papà ha organizzato una raccolta di beni di prima necessità; a breve partiranno due camion carichi di vestiti. Li ricevono a Milano, dove c’è la parrocchia ucraina, presso la Chiesa di San Giacomo e Giovanni.» Parlare di guerra, soprattutto quando ti tocca, quando il suo fetore ti alita addosso, non è facile. Ci si affatica subito… costa caro. Per quella mattina non era il caso di proseguire oltre nella conversazione, abbiamo deviato sui goal di Shevchenko, sulle equazioni fratte e sul sole fuori dalla vetrata.


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Poche righe sopra abbiamo riportato un’iniziativa partita dal basso, dalla famiglia di Ale, per rispondere ad un’esigenza che nelle prossime settimane diverrà sempre più stringente, quella di soddisfare i bisogni primari: coprirsi, nutrirsi, resistere al vento ghiacciato. Riempire interi container di vestiti, cibo in scatola, coperte, implica un lavoro collettivo, presuppone il coinvolgimento di molti. Di seguito troverete la testimonianza diretta di Giacomo, un insegnante di Ale che ha partecipato a questa iniziativa.

 «La sera del 26 gennaio, un sabato, la tutor della classe di Ale ha girato sul gruppo Whatsapp dei docenti un messaggio in cui si invitava a portare “beni di prima necessità” in un magazzino di Cesate, in cui si sarebbe organizzata una raccolta lunedì e martedì. Si chiedevano coperte, piumini, abbigliamento per adulti e bambini, scarpe, pannolini, medicine, sapone, cibo in scatola… Dei furgoni sarebbero partiti per il confine con la Polonia per portare aiuto a persone che nel giro di qualche ora erano diventate profughi. Mi sono subito sentito in dovere di fare qualcosa, così martedì ho preso dall’armadio degli abiti caldi e sono andato al magazzino con la mia compagna. 

A scuola se ne parlava, così sapevamo che probabilmente ci sarebbe anche stato bisogno di aiuto per uno smistamento. Ho capito subito che c’era tanta gente e tanta roba. In tutta la via c’era un gran traffico di auto e di persone che andavano e venivano, chi camminava verso il magazzino portava scatoloni, sacchi e sacchetti pieni. All’interno regnava una gran confusione, credo che non si aspettassero una risposta del genere. Si entrava direttamente in un’ampia sala, il cui pavimento era quasi completamente coperto da pacchi, scatoloni e sacchetti pieni di cose, una vista che mi ha commosso. 

Le persone entravano, cercavano qualcuno a cui chiedere dove poter lasciare quello che avevano portato e andavano via, c’era un flusso continuo. Abbiamo chiesto se potevamo aiutare e un uomo ci ha indicato la porta per un’altra stanza, era stato lasciato libero un corridoio per raggiungerla. Questa seconda sala era un po’ più grande della prima e ancora più confusa, c’erano centinaia di sacchi della spazzatura pieni di vestiti e coperte ammucchiati alle pareti e una ventina di persone che lavoravano, si sentiva parlare sia italiano che ucraino. 

Lì c’erano già due colleghi, così ci siamo messi vicino a loro. Il lavoro era semplice, bisognava dividere i vestiti da adulto da quelli per bambino e metterli in sacchi della spazzatura, medicine e cibo invece in scatoloni a parte. 

Si respirava un grande senso di urgenza, bisognava fare in fretta, non c’era tempo di dividere neanche i vestiti da uomo da quelli da donna. Solo ora mi viene da pensare che c’erano molti più vestiti che cibo o medicine, anzi, quasi solo vestiti. Siamo rimasti due ore, a fine serata c’era una quantità impressionante di sacchi, poi avremmo scoperto che i furgoni non bastavano, sarebbe stato riempito un tir. Sono tornato un’altra volta nei giorni a seguire a portare altre cose e mi sono fermato per aiutare con lo smistamento, trovando una situazione decisamente più organizzata. 

Anche in quell’occasione ho trovato due colleghi e qualche ragazzo della scuola che ha voluto dare una mano.» 


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In via Fratelli Cervi, a Macherio, si trova un bed and breakfast piuttosto singolare. La donna che lo gestisce si chiama Barbara. Vorrei che teneste a mente il suo nome… 24 febbraio 2022. L’esercito russo invade i confini dell’Ucraina. Le sirene iniziano a suonare, il cemento dei palazzi, colpito dalle raffiche d’artiglieria, comincia a sgretolarsi. 

La violenza umana sfonda le porte, penetra nei salotti, nelle camerette, nelle scatole di giocattoli. Con i suoi artigli sfratta migliaia di famiglie, le sbatte per strada, sotto nuvole di piombo. La violenza umana strema, ferisce, uccide, mette in fuga. I profughi, gli ennesimi di un’ennesima guerra (non dimentichiamoci degli altri migranti, quelli con cui alcuni nostri politici e concittadini faticano a solidarizzare, dal momento che hanno la pelle un pochino più scura), si accalcano alle frontiere… alle spalle l’infamia e di fronte l’incertezza europea. Qualcuno di loro riesce a raggiungere l’Italia. 

Alcuni sono già qui, altri arriveranno… Il bed and breakfast La Ceci, in via Fratelli Cervi, oggi ha cambiato insegna. Barbara non ci ha messo molto ad agire, non ha tergiversato. Barbara crede che l’accoglienza non sia un concetto, e tanto meno uno slogan. L’accoglienza è una prassi, un’azione, una postura. 

I letti della pensione al primo piano, le federe bianche, le trapunte di lana, danno ora riposo a persone ucraine, a madri stravolte e a figli vivaci. Due di loro le ho incontrate qualche giorno fa. Grazie all’aiuto di Ale, la studentessa dell’istituto grafico, siamo riusciti a comunicare senza l’utilizzo di un traduttore. 

1 Io e Barbara abbiamo assistito al dialogo nella sala comune del B&B, senza capire un accidente, senza fiatare, con le braccia conserte e la tachicardia. Da una parte due donne in fuga dalla loro terra… dall’altra una ragazza che conosce il profumo, la consistenza, la realtà viva di quella medesima terra. L’Ucraina. 

Parlare la stessa lingua, in situazioni come queste, diminuisce drasticamente ogni distanza chilometrica; si finisce per conoscersi intimamente pur non essendosi mai visti. Di seguito riporto alcuni stralci di quell’incontro che mi sono stati inviati, grazie ad un prezioso lavoro di traduzione… sempre di Ale, che non finirò mai di ringraziare. 

«Che lavoro facevate prima che iniziasse la guerra??» «Facevo l’agente immobiliare, durante le prime ore del conflitto cercavo case per persone che venivano dall’est dell’Ucraina.» «E tu invece?» «Ora sono in maternità, ma prima mi occupavo della gestione del gas. Lo stesso gas tanto caro all’Occidente.»

 «Ve la sentite di dire qualcosa riguardo questi ultimi giorni?» «Questi ultimi giorni sono molto pesanti per ogni ucraino, tutto questo ci ha molto unito… la divisione ovest-est non esiste più. Siamo un unico popolo. Ognuno di noi vuole che il nostro stato sia forte, indipendente e libero. Abbiamo il diritto di esistere in quei confini che risalgono a prima del 2014.» 

2 Le due donne si alternavano nella narrazione, ma ogni successivo segmento di testimonianza si incastrava con quello precedente. La figura che iniziava ad emergere da quelle parole aveva il contorno di una linea oscura… una linea di guerra. 

«Il primo giorno hanno bombardato l’aeroporto di IvanoFrankivs’k [la donna con il bambino in braccio viene proprio da lì]. Metà della popolazione è scappata. Quella mattina c’era un forte traffico in città. Fino all’ultimo gli ucraini non volevano e non potevano credere ad uno scenario così drammatico, come può accadere una cosa simile nel XXI secolo?» Com’è potuto accadere? 

Ancora una volta… nonostante il Novecento, il “progresso” e la diplomazia? Il sole evocato dalla donna di Kiev, lo stesso che batteva sulla finestra al terzo piano, fatica a sorgere tra le macerie della capitale. Sumi, Mariupol, Borodyanka, Irpin, Kharkiv e molte altre città ucraine si trovano nella notte più oscura… …che i raggi del sole tornino a battere anche lì. Cos’è che ci ha fatto inventare la Torre Eiffel, le guerre di religione, la stazione spaziale internazionale, le armi di distruzione di massa e le canzoni d’amore?? 

Samuele Viganò Ale Giacomo Paleardi


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