MACHERIO: LA VITA TUA E' ANCHE LA VITA MIA



Il ben-essere di una comunità si basa su diversi fattori, ma è indubbio che derivi
principalmente, se non essenzialmente, dalle relazioni interpersonali al suo interno.
 

Può aiutare l’antico detto di un latino facile facile: “Mors tua Vita mea”. Ma questa è una sola delle possibili combinazioni. Si devono aggiungere: “Mors mea Vita tua” “Mors mea Mors tua” “Vita tua Vita mea”. 

1) Se ho bisogno che tu muoia perché io riesca a vivere, vuol dire che io mi sento al centro del mondo. Io aspetto la tua morte, la desidero, la favorisco, per avere un mio spazio vitale. Vuol dire, trasferendo il detto da un contesto personale a uno comunitario, che l’unica verità è la mia, la razza eletta è la mia, la cultura superiore è la mia, la normalità è la mia. C’ero prima io, per ragioni di età o per ragioni di residenza sul territorio. Tu sei ai margini, sei un intruso, non sei nessuno, sei morto. 

2) Preferisco morire io per garantire la vita a te. Sembra l’atteggiamento opposto al primo: testimonia il massimo di altruismo contro il massimo di egoismo. Lo si capisce, e a volte lo si apprezza, nei rapporti di coppia: non solo tra due coniugi o compagni, ma anche tra genitore e figlio (chi non si commuove alla notizia di una madre che si sacrifica per il figlio?), tra fratello e fratello, tra nonno e nipote. Ma sul piano delle relazioni all’interno di una comunità, il discorso cambia. Non è obbligatorio volersi bene; dovrebbe essere obbligatorio garantire una convivenza decente. Se arretro io, mi tiro da parte, mi faccio piccolo, resto nell’ombra, non contribuisco a rendere la mia comunità più serena. “Morire” per consentire agli altri di “Vivere” sarebbe una risposta sbagliata e, comunque, impossibile per relazioni diffuse. 

3) Muoia Sansone con tutti i Filistei. Me ne vado per sempre io ma a condizione che te ne vada anche tu. Vivo male io ma vivi male anche tu. È il detto “Mal comune mezzo gaudio” elevato alla “n”. E siccome quel detto è di una stupidaggine assoluta, Mors mea Mors tua è di una stupidaggine elevata alla “n”. 

4) È proprio un’impresa impossibile in una comunità far combaciare le sorti, pur altalenanti, della mia vita con le sorti, pur altalenanti, della tua? Delle quattro varianti, questa è l’unica in cui si possono invertire la “tua” e la “mia”: non c’è precedenza nel favorire la vita. O si cresce insieme o si arretra. Già, ma come si fa a crescere insieme? La politica può aiutare. 

Volendo, può anche peggiorare la situazione. Naturalmente, per politica si intende non l’interpretazione dei sogni (tanto meno, lo spaccio di sogni), ma la realistica continua ricerca di forme di convivenza decorose. Quali possono essere? 

Il requisito essenziale per una convivenza accettabile all’interno di una comunità è l’accettazione di un doppio principio: le leggi devono essere uguali per tutti, le tradizioni e le convinzioni devono essere libere per tutti. Facile, no? Mica tanto. Bisogna intendersi. 

Tradizione non è sinonimo di legge, che obbliga tutti a comportamenti necessari per stare insieme senza accoltellarsi. Anche il cannibalismo era una tradizione, anche l’infibulazione; ben vengano leggi che pongano fine a queste tradizioni. Il volere della maggioranza non è sinonimo di giustizia. 

La storia dovrebbe avercelo insegnato una infinità di volte. Dai tempi dei tempi all’altro ieri a oggi. Fu la maggioranza, anzi sembrerebbe l’unanimità del popolo, a decretare la condanna, mica per dire, di Gesù. Fu la maggioranza, spesso schiacciante, a idolatrare Mussolini, Hitler, Stalin. 

È, ahinoi, la maggioranza a sostenere regimi illiberali e dottrine paranoiche. Del resto, mai nessun uomo è riuscito a rispondere in modo definitivo all’interrogativo: fino a che punto si può essere tolleranti con gli intolleranti? Il comportamento della maggioranza in sé non produce normalità. Non si è “normali”, qualunque cosa voglia dire questa parola, solo perché i più, chiudendosi a riccio, rifiutano la diversità. 

La convivenza, quella vera, in una comunità si ottiene solo nell’ospitare i diversi modi di vivere, nell’accettare i tentativi fragili di vivere. È la fragilità, non la sicumera, la parola adatta per definire una comunità e, a ben guardare, a definire un uomo. Per questo, Macherio è un gran paese.  un centro per le famiglie e un centro per disabili non è da tutti: sono solo i migliori a permetterselo. E a costruirli non è stato il capriccio del caso né un ente superiore. Il merito va tutto alla politica, il voler bene alla polis, alla propria città. D’altra parte, se non fa questo, a cosa serve la politica? 

Se è vero che la politica è l’arte del possibile, è altrettanto vero che la rinuncia alla politica, l’antipolitica, allontana il tanto o poco possibile che la realtà offre. Prendere atto della realtà, senza inchiodarsi alla realtà ma cercando di migliorarla: questo, credo, chiedono gli amministrati agli amministratori, i rappresentati ai rappresentanti, gli elettori agli eletti. 

Chiedono, credo, di comprendere fino in fondo che anche le comunità piccole come la nostra sono cambiate e continueranno a cambiare. Perché non esiste comunità, pur minuscola, che non sia plurale. 

Pluri-qualcosa: culturale, religiosa, etnica, generazionale, comportamentale. Favorire il difficile lavoro di cucitura, o ricucitura, delle distanze se non addirittura degli strappi tra macheriesi doc e nuovi arrivati, vecchie e nuove leve, riservati e amiconi, non è questione di buonismo, come qualcuno la definisce a sproposito; è l’abc dello stare insieme. 

C’è chi sostiene che la pluralità è una ricchezza; chi, al contrario, la teme come una catastrofe. Occorre semplicemente prendere atto che oggi la convivenza o è plurale o non è. 

Franco Verga


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