MACHERIO: SALUTE è PROFITTO


Se prestiamo attenzione critica ai comunicati che si susseguono da parte dei più svariati esperti in materia di epidemie, possiamo cogliere, al di là delle considerazioni espresse, un messaggio univoco: evitiamo gli assembramenti e i contatti stretti fra persone perché se ci ammaliamo in tanti e contemporaneamente, il sistema sanitario non regge. 

Dunque, sembra di capire che si dà per scontato che ci possiamo ammalare, anzi che ci dobbiamo ammalare per creare quella che viene definita immunità di gregge,ma lo dobbiamo fare gradualmente, pochi per volta. Ma allora, l’oggetto del contendere è la salute dei cittadini o la capacità del servizio sanitario di reggere all’onda d’urto? E, se è vera la premessa, perché si è arrivati a questa situazione? Non starò a snocciolare numeri per suffragare quanto vado a esporre: diventerebbe una noiosa trattazione parascientifica. 

Ho passato oltre quarant’anni della mia vita nel mondo della sanità e qualche idea sul suo funzionamento me la sono fatta. Esprimerò dunque la mia opinione e non pretendo sia condivisa da tutti. Fino agli anni settanta del secolo scorso la tutela della salute, bene primario sancito dalla Costituzione, non era garantita a tutti e in egual modo. Molte categorie di cittadini, in particolare artigiani e commercianti, non godevano delle stesse garanzie dei lavoratori dipendenti.

Era un fiorire di casse mutualistiche (per gli insegnanti, per i tramvieri, per i lavoratori dello spettacolo, per i pubblici dipendenti, per gli addetti all’agricoltura, etc.) che affiancavano un grande carrozzone pubblico chiamato INAM, acronimo di Istituto Nazionale Assicurazione Malattia, che garantiva le prestazioni sanitarie alla restante parte dei cittadini. 

Istituito nel 1943, questo sistema è stato soppresso nel 1977 per manifesta inefficienza e provata disonestà nella gestione dei conti. Insomma: una macchina mangiasoldi che non aveva più senso di esistere. Al suo posto, nel 1978, è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale che garantiva l’accesso di tutti i cittadini alle cure sanitarie. La salute veniva riconosciuta come un diritto universale, anzi il bene primario per eccellenza. 

Con i dovuti adeguamenti, soprattutto a livello regionale, è il sistema ancora in vigore. Attorno agli anni sessanta, era un fiorire di ospedaletti di paese (Lissone è un esempio a noi vicino) che, visti col senno di poi, non avevano ragione né di esistere né di essere concepiti se non per la celebrazione della gloria e della potenza di qualche politico locale di turno. 

Il taglio del nastro era garanzia di voti e potere. La sanità era organizzata in modo diverso, le specialità mediche non avevano raggiunto il grado di conoscenza e di complessità cui siamo abituati. I posti letto e il personale, spesso ossequioso e riconoscente, non mancavano ma tutto andava a scapito della qualità e dell’efficienza del sistema. Per un piccolo intervento chirurgico si stava ricoverati per intere settimane, mesi addirittura. Ciò che importava era l’occupazione dei posti letto, il vero parametro che faceva lievitare la quota in denaro versata dalle casse dello Stato all’ospedale. Anche con questo sistema che non garantiva efficienza in termini di produzione di salute, non si poteva continuare. Per mettere ordine e migliorare la perfomance ospedaliera nel tentativo di ottimizzare il rapporto fra costi e benefici, nel 1994 vengono introdotti i DRG, acronimo che sta per l’inglese Diagnosis Related Group. 

La principale finalità di questa innovazione è di contenere la spesa sanitaria che, con la lievitazione dei costi degli esami diagnostici e delle terapie è diventata insostenibile per i bilanci delle Regioni e dello Stato. In pratica questo sistema permette di classificare tutti i pazienti dimessi da un ospedale in gruppi omogenei per assorbimento di risorse economiche impegnate. Per semplificare, ogni ricovero per la stessa patologia viene retribuito all’ospedale con la stessa tariffa all’interno del territorio regionale. Va da sé che un rapido turnover di pazienti, garantendo un maggior numero di prestazioni, attribuisce alla struttura maggiori incassi. Ecco perché un bravo ed efficiente ospedale dimette in fretta le persone.

 Ed ecco perché grandi gruppi privati e singoli imprenditori hanno investito nel settore della salute. La salute è diventata un bene che risponde alla legge di mercato: produrre salute con un occhio di riguardo ai bilanci è diventato un vero business. La salute è una merce che si compra e vende e se sono bravo faccio affari. Si taglia sul numero di addetti, si offrono bassi stipendi e i bilanci economici sono in attivo. 

Da anni gli ospedali pubblici assumono pochissimi medici. Molti lavorano con borse di studio e incarichi a scadenza. Le cliniche private, accreditate dal sistema pubblico (Policlinico, Clinica Zucchi, San Raffaele, Galeazzi etc.) non assumono neppure: i medici lavorano a partita IVA e sono imprenditori di loro stessi assumendosi i relativi rischi di impresa. La medicina di territorio è pressoché abbandonata a se stessa. Da anni non si rinnova la convenzione che adegua gli onorari dei medici e ne aggiorna diritti e doveri. 

I dirigenti della Regione Lombardia hanno mancato di fare la loro parte: non c’è convegno in cui l’assessore regionale alla Sanità abbia perso l’occasione di ribadire che la medicina di base rappresenta un costo che non produce salute. Meglio tagliarla. In questo quadro il personale sanitario si sente poco tutelato, frustrato e demotivato. Certamente bisogna considerare che le pubbliche risorse a cui attingere non sono infinite, ma nel campo della salute più che altrove vale il principio che la prevenzione è meglio della cura. Investire in prevenzione è come stipulare una buona assicurazione che ci tuteli dai rischi. Costa soldi ma si spera di non doverla mai usare. 

Così dovrebbe funzionare per la sanità. Assumere personale medico e infermieristico, adeguare le loro retribuzioni, investire nelle specialità e sul territorio non deve rappresentare un costo ma un investimento che rende a tutti la vita più tranquilla e serena. 

I soldi non ci sono? Ognuno di noi faccia un piccolo esame di coscienza e si metta in testa che contribuire con la tassazione alla costruzione del benessere collettivo va a vantaggio di tutti. Ma le leggi di mercato, in un mondo basato sul PIL e sull’arricchimento personale, hanno la prevalenza e questi sono i risultati. 

E il fatto che la medesima situazione sia diffusa, in maniera più o meno allarmante, in tutto il mondo occidentale non può rappresentare motivo di consolazione e ci deve fare ulteriormente riflettere. 

Roberto Redaelli 

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