MACHERIO: SCIUR DUTUR VA IN PENSIONE


Adesso che sto per chiudere bottega lo posso anche confessare: sono stato un medico poco rispettoso delle forme e dei comportamenti dominanti. All’Università mi hanno insegnato le regole, gli strumenti e il linguaggio della medicina. Mi hanno trasmesso il sapere medico, indispensabile conoscenza per poter esercitare la professione. Ma non ho impiegato molto a capire che qualche cosa, nel meccanismo della trasmissione della scienza e della conoscenza, non andava. 

L’apprendimento del linguaggio medico mi ha portato a dire e a scrivere “paziente dispeptico” oppure “nega potus” o “allega TIA” per definire una persona che, nell’ordine, ha problemi digestivi, non esagera con l’alcol o ha avuto qualche problemino di circolazione a livello cerebrale. Utile per comunicare fra colleghi, il linguaggio insegnato si rivelava indispensabile all’appartenenza alla casta ma non alla comunicazione con l’ammalato che, anzi, veniva escluso in quanto, di fatto, gli era preclusa la facoltà di comprensione. 

Invece era il protagonista del racconto, il tema vero, il soggetto di quel giallo da dipanare che si chiama malattia. Ho cercato di usare ben poco tutti quei termini e di parlare un linguaggio semplice e quotidiano. Di comunicare in modo più diretto per farmi capire. 

Perché la comprensione della situazione è essa stessa parte del processo di guarigione. Non erano più i tempi della medicina imposta dal medico detentore del sapere e del potere. Neppure quello del rapporto paternalistico e bonario che pure erano state le linee guida della medicina per interi secoli. 

Bisognava creare quello che con ottima sintesi gli anglosassoni chiamano empowerment, ossia coinvolgimento, consapevolezza dell’altro nella condivisione del percorso di cura affinché si potesse stabilire un patto fra tutti i soggetti impegnati nel percorso verso la guarigione.Prendersi cura, concetto un po’ più completo e pregnante rispetto al curare. Nessuno me lo aveva insegnato che la comunicazione, fatta anche di ascolto, è la chiave che apre ogni scrigno, anche il più segreto. 

Un elemento indispensabile per creare una relazione fra due soggetti che nella malattia sono oggettivamente su due piani diversi. Il medico che dall’alto della sua conoscenza detiene il potere di guarire (o di nuocere) e il paziente che si trova in posizione di subalternità per la sua condizione di bisogno. 

Ma, ancora, non bastava apprendere una tecnica di comunicazione, non bastava mettersi in gioco con la propria sensibilità umana. Occorreva creare quell’empatia che si costruisce con una maturazione personale che passa anche attraverso la cognizione del dolore, della sofferenza e perfino della morte. 

Il lavoro come crescita umana quotidiana, fatta di tensioni, incomprensioni, sacrifici e sofferenze che vanno oltre gli aspetti e le capacità tecniche di cui la medicina è sempre più intrisa rischiando di finirne soffocata. La Medicina come arte del guarire e non come mera e sterile tecnologia applicata a un organismo. 

L’Essere umano, nella sua complessità fatta di soma e psiche al centro dell’interesse medico. Il farmaco come strumento di aiuto nel complesso processo di guarigione e non come oggetto esclusivo, centrale e conclusivo dell’atto medico. 

Ho imparato, con le letture di storia dell’evoluzione medica, che ogni epoca è stata caratterizzata da particolari malattie sempre collegate a situazioni economiche e sociali. Nei secoli scorsi epidemie portate da carestie e guerre, con il corredo di malattie connesse a cattiva nutrizione. Oggi ansie e disturbi psichiatrici riferibili a stress e sensazioni di inadeguatezza, imposte da esigenze e ritmi di una società che persegue falsi obiettivi. 

Questo per dire che nel lavoro di medico non bastano la preparazione e la conoscenza della materia ma occorrono una coscienza di sé e una tensione morale che si rivolge alla giustizia sociale, che ti spinge a far bene e al rispetto del prossimo.

Non sono concetti semplici e neppure facili da sintetizzare. Sociologi, filosofi e scienziati ci sono sicuramente riusciti meglio di me. Ma nel mio piccolo ho cercato di mettere in pratica ciò che di buono ho imparato. 

So di non esserci sempre riuscito. Ogni medico deve essere consapevole dei limiti personali e dei limiti e delle carenze che sono insiti nella scienza e nella disciplina esercitata che è, per natura, frutto delle conoscenze e delle ricerche del proprio tempo. 

Per tanti anni sono stato, tutti i giorni, giudicato sul mio operato. Non è stato facile sopportare il peso di tante responsabilità, di tante decisioni e di tante scelte. Ho sperimentato ogni giorno come sia faticosa la convivenza con la sofferenza e come possa essere devastante l’evoluzione della malattia. 

Tante volte, per fortuna, ho condiviso la gioia degli assistiti per il benessere riconquistato. Mi sono sempre dato da fare perché il malato non perdesse mai, soprattutto nell’atto terminale della vita, la propria dignità. 

Ora viene il momento per le nuove generazioni che vedo studiose e preparate. La tecnologia, come tutti possiamo constatare, si è incuneata nella quotidianità delle nostre vite. Consente, in ambito medico, scambi di conoscenze e progressi che solo in un passato non troppo lontano erano impensabili. 

Un robot, comandato a distanza, magari oltreoceano, è in grado di eseguire con estrema precisione interventi chirurgici della massima complessità con assoluta precisione. Quella di una macchina, appunto. Con la telemedicina si trasmettono immagini e referti commentati e valutati da équipe di specialisti. 

La burocrazia, anche per ogni atto medico, infastidisce con il suo complicare le cose semplici. Però ci si dimentica che essa è una costruzione dell’uomo che non vuole assumersi le proprie responsabilità cercando di distribuirle o scaricarle su altri. Non so cosa ci prospetterà il futuro e cosa diventeranno il medico e la medicina. La mia speranza è che prevalgano sempre il rispetto, la comprensione e la solidarietà fra le persone.

Dopo oltre quarant’anni di professione per me è arrivato il tempo di lasciare.

Ita sensim sine sensu aetas senescit. E così, piano piano, senza accorgerci, ci ritroviamo vecchi. Ed è così che ci salutiamo. Con tanto affetto. 

Roberto Redaelli

Commenti

Post popolari in questo blog

MACHERIO, PENSIERI SULLA PACE DEGLI ALUNNI DI MACHERIO

MACHERIO : E ADESSO RICOMINCIAMO

MACHERIO: PASSEGGIANDO PER IL PARCO DI VILLA BELVEDERE

MACHERIO, POLIAMBULATORIO, A DUE ANNI DALL'APERTURA...

MACHERIO: SCUOLA OLTRE L'OCEANO