MACHERIO, VALENTINA REDAELLI TRA " PATRIA " E GIORNALISMO

Un librone di oltre 600 pagine che ripercorre dieci anni di storia italiana, dal 1967 al 1977. Roba per specialisti? Anche. Ma lo possono leggere veramente tutti, grazie alla spigliatezza tipica dei due autori, entrambi giornalisti: Enrico Deaglio, affermatissimo e noto al grande pubblico per le sue inchieste, che quegli anni li ha vissuti intensamente, affiancato da Valentina Redaelli, ancora poco conosciuta. Ma non a Macherio, dove abita da quando è nata trentotto anni fa. Ci è venuta la voglia di saperne di più, non solo sul libro, “Patria 1967-1977”, che è stato accolto da un notevole successo visto che l'editore Feltrinelli ha già provveduto alla ristampa, ma anche sulla nostra concittadina.

Come ha iniziato la sua carriera di giornalista?
Ho cominciato nel 2004 dopo essermi laureata in lingue e letterature straniere con una tesi dedicata alla storia della prima radio indipendente americana, KPFA, di Berkeley, in California. Ho mandato una mail alla segreteria di redazione di “Diario”, settimanale diretto da Enrico Deaglio, e mi hanno chiamato per uno stage che è durato un anno, tra il 2004 e il 2005. È stata per me un’esperienza formativa straordinaria, professionale e umana, grazie alla quale ho avuto la conferma che nella mia vita volevo dedicarmi al giornalismo. Poi sono andata a Radio Popolare, storica radio indipendente di Milano, che apprezzavo da ascoltatrice e che nel frattempo mi aveva proposto un primo contratto. Sono rimasta lì per tre anni, passando dal ritmo lento di un periodico a quello frenetico dei notiziari, con la sveglia alle 5 del mattino e molta adrenalina. Lì mi sono occupata soprattutto di esteri, da Milano, lavorando a stretto contatto con la rete di collaboratori sparsi in tutto il mondo, molti dei quali volontari, che permettono alla radio di essere sul pezzo, nonostante le risorse limitate. Nel 2008 sono tornata a Diario, diventato nel frattempo un quindicinale, per il quale, oltre al lavoro di redazione, ho scritto reportage dall’Italia e dall’estero. Ma quel periodo ha coinciso con l’inizio della crisi economica che ha colpito duramente anche l’editoria, con diverse testate piccole ma autorevoli che non hanno retto. E così anche Diario ha chiuso, nonostante avesse ancora molto da dire. Qualcuno però si ostinava ancora a fare giornali di carta e io mi ostinavo ad accettare, perché fare un giornale, insieme ai colleghi, è un lavoro bellissimo (anche se non ho nulla contro le testate online, anzi ci lavoro). Sono stata chiamata al mensile “E” di Emergency. Ho accettato soltanto perché l’autonomia della testata rispetto all’Ong era garantita da un giornalista del calibro di Gianni Mura, direttore delle rivista. Qui a “E” ho fatto molta “macchina”, come si dice in gergo, ovvero lavoro di redazione, seguendo tutte le fasi di lavorazione del giornale, dall’ideazione dei contenuti fino all’invio in tipografia. Poi anche E è stato chiuso, da un mese all’altro. A quel punto, per non deprimermi, ho deciso di andare a seguire, come freelance, uno degli eventi che, nel bene e nel male, mi interessano di più al mondo: le elezioni presidenziali americane. Sono partita nel settembre del 2012 alla volta di New York. Da lì, insieme all’inviato di Radio Popolare, Roberto Festa, ci spostavamo per il paese per seguire la campagna elettorale. Per esempio il comizio di Michelle Obama in un granaio della Virginia o quello di Bill Clinton accompagnato, per l’occasione, da Bruce Springsteen in una palestra in Ohio. La notte della rielezione di Obama eravamo a Chicago per assistere al comizio della vittoria e raccontare un evento destinato a entrare nella storia. Noi in diretta con Radio Popolare al fianco delle maggiori testate del mondo! E la mia collaborazione con Radio Popolare continua tuttora. Una delle interviste più significative che mi sono capitate è quella a un sopravvissuto della strage del Bataclan a Parigi.

Passiamo al libro “Patria 1967-1977”. Com’è nata la collaborazione con Deaglio? Con quale finalità è stato scritto?
Come dicevo, ho conosciuto Deaglio all’epoca di Diario nel 2004. Dopo quell’esperienza, mi ha chiamato nel 2013 chiedendomi di collaborare al suo libro “Indagine sul Ventennio”, il Ventennio è quello berlusconiano. E poi un anno fa mi ha proposto di dargli una mano in questo suo ultimo progetto. Ho accettato un po’ follemente, sapendo che la mole di lavoro sarebbe stata colossale. Ma è stato soprattutto un onore. Lo scopo è naturalmente quello di fare in modo che non venga dimenticato un decennio fondamentale della storia italiana, un decennio che, possiamo dirlo, ha cambiato questo paese nel profondo. Anni che i giovani conoscono poco, mentre chi li ha vissuti tende a interpretarli alla luce dello schieramento d’appartenenza o a ricordarli in modo un po’ sbiadito.

Di quale parte del libro si è occupata, com’è strutturato e cosa lo differenzia da altre opere dello stesso genere?
È stato un lavoro lungo e metodico al quale ho partecipato senza concentrarmi su un tema o un filone in particolare. L’autore mi assegnava di volta in volta parti da scrivere e ricerche da fare e, giorno dopo giorno, ci si imbatteva in spunti nuovi su cui confrontarci. “Patria” è stato scritto con l’intento di non annoiare il lettore: infatti è diviso in paragrafi molto agili che seguono l’ordine cronologico. A ciascun evento, che sia di cronaca, politica, costume, cultura o sport, è dedicato un breve paragrafo. Se, per esempio, un lettore vuole ricordare come andò la semifinale Italia-Germania 4 a 3 del 1970, troverà un paragrafo dedicato a quello, pieno di dettagli e curiosità. E molto ben scritto, perché Deaglio è un grande storyteller, e il suo stile originale e moderno emerge in continuazione. Insomma, questo libro lo si può pensare un po’ come una serie tv: se ne può fare un’abbuffata senza staccarsi per ore, o leggerlo “a puntate” senza perdere il filo. La particolarità sta anche nella scelta di raccontare i fatti di 40-50 anni fa al presente, come se stessero avvenendo ora, con il passo della cronaca, citando fonti e testimonianze dell’epoca, ma alla luce di tutto quello che sappiamo oggi su quegli eventi, che spesso per decenni non hanno trovato una verità giudiziaria.

Cosa salviamo e cosa invece “buttiamo” dell’Italia di allora?
Il libro salva naturalmente le grandi conquiste sociali di quel decennio: l’apertura dell’università a tutti, la pensione, la mutua, il sistema sanitario nazionale, il diritto di separarsi, di divorziare, di interrompere la gravidanza, la maggiore libertà dei costumi, lo Statuto dei lavoratori, la chiusura dei manicomi, l’obiezione di coscienza. Diritti che, in alcuni casi, oggi fanno passi indietro (forse perché li abbiamo dati per scontati) e che vanno riaffermati ogni giorno. E salviamo l’offerta culturale dell’epoca: libri, dischi, film di altissimo livello. Si prova orrore e incredulità invece di fronte ai continui attacchi alla democrazia orditi in quegli anni, in particolare dalla strage di Piazza Fontana in poi. Il libro ricostruisce nei dettagli come, nel contesto più ampio della Guerra Fredda, interi apparati dello Stato si siano serviti di gruppi neofascisti per diffondere terrore, mantenere potere e privilegi e fermare il cambiamento. Per citare le parole dello stesso Deaglio, “dal 1967 al 1977 in Italia ci sono stati almeno otto ‘grandi’ tentativi di colpi di stato, almeno venti ‘grandi’ attentati alle linee ferroviarie e a luoghi pubblici con l’obiettivo di creare paura e di instaurare una nuova forma di governo. Non hanno mai vinto ma non hanno mai perso veramente”. Eppure il sistema democratico ha tenuto, benché scosso dalle bombe o dai tentati golpe e da decine di morti ammazzati, anche grazie a un tessuto sociale più solido e a una partecipazione più forte rispetto a oggi.
Spostiamo l’attenzione sulla situazione del giornalismo attuale. La sensazione, lo dico da cittadina che cerca di informarsi, è che ci sia, tra giornali e telegiornali, una certa uniformità sia nelle notizie che vengono date sia nelle versione dei fatti. Più che il cane da guardia del potere, il giornalismo sembra insomma il suo cane di compagnia.
Un certo giornalismo funzionale al potere è sempre esistito. La propaganda non l’hanno inventata le fake news. Poi c’è il conformismo, che favorisce un “pensiero unico” anche nelle redazioni. Una spiegazione potremmo cercarla nel fatto che le tv siano interessate agli ascolti, così come i siti di informazione ai click, che generano pubblicità, cioè soldi. C'è quindi la tendenza a puntare su quello che va per la maggiore, su quello che funziona, su quello che attira maggiormente l'attenzione. E la maggior parte delle testate si uniformano. Questo rischio si può evitare solo attraverso una vera indipendenza dei mezzi di informazione. Nel suo piccolo, per esempio, Radio Popolare non ha un editore, la linea editoriale ce la diamo noi e viviamo per lo più grazie agli abbonamenti dei nostri ascoltatori, che decidono di sostenere qualcosa che potrebbero ascoltare gratis perché per loro ha un valore. Questo ti rende certamente “diverso” dal resto del panorama mediatico, più libero di scegliere che notizia dare e come darla. Per esempio sull’accoglienza dei migranti siamo stati tra i pochi a criticare le politiche di respingimento e nessuno ci ha censurati, perché nessuno poteva farlo. Certo, anche la disponibilità di denaro, se ben utilizzato, aiuta a differenziarsi, perché vuol dire avere più mezzi per fare un’inchiesta, per inviare cronisti sul campo, per assumere nuovi giornalisti, per chiedere una consulenza legale, per diversificare le fonti. Questo è quello che succede nelle grandi testate internazionali che investono sulla propria credibilità. E poi bisogna essere bravi e farsi venire idee in continuazione.
Un altro problema di cui si sente spesso parlare è quello rappresentato dalle fake news, ossia false notizie.
Non è mai stato così facile comunicare come adesso ma è sempre più difficile farlo in modo corretto. Pensiamo ai social network che diffondono qualsiasi cosa, vera o falsa, con una viralità incredibile, senza l’obbligo di verifica. I social hanno un effetto moltiplicatore sulle bufale e sulle notizie create ad arte perché qualche potere ha interesse a farle circolare. E noi clicchiamo ‘mi piace’, magari fermandoci al titolo, perché spesso, più che la verità dei fatti, cerchiamo riscontri al nostro modo di vedere le cose. In questo contesto, che può essere pericoloso per la democrazia, credo sia cruciale il ruolo di mediazione del giornalista. Che non potrà smascherare ogni fake news, ma che può fare bene il proprio lavoro, inteso come servizio all’opinione pubblica. Che deve controllare le fonti, verificare le informazioni, raccontare i fatti nel modo più aderente alla realtà, ed eventualmente commentarli in libertà. Ma, ripeto, per fare questo c’è bisogno di soldi, di tempo, di energie. Il buon giornalismo costa. Lo scandalo Weinstein, per esempio, è scoppiato grazie a un’inchiesta di Ronan Farrow. Inchiesta delicatissima che è durata 10 mesi, rifiutata dalla CBS, la rete tv per cui lavorava lo stesso Farrow, e pubblicata poi sul “New Yorker”. Ecco, pensiamo all’impatto che questa inchiesta ha avuto sulla società! Sta cambiando il paradigma: lo stigma sociale è passato dalle vittime di violenze, di genere e di potere, ai predatori, che da un giorno all’altro si sono ritrovati con la paura di perdere tutto. Perché questa inchiesta ha rotto il silenzio. È l’ultimo grande esempio di come un giornalismo serio e coraggioso faccia del bene alla società. Però va sottolineata un’altra cosa…
Prego
Se da un lato è necessario che il giornalista faccia con cura e con coscienza il proprio mestiere, dall’altro il cittadino deve però saper coltivare il dubbio, anticorpo necessario per sopravvivere al bombardamento di informazioni, vere e false, cui tutti siamo sottoposti ogni giorno e discernere. Forse sarebbe utile formare un po’ più al senso critico fin da bambini.

A cura di Coviello Lucia Grazia




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