MACHERIO,PARLANDO D'AFRICA



Da due anni e mezzo il Camerun accoglie il macheriese don Luigi Rivolta. Facciamo due chiacchiere con don Gigi per conoscere un po’ meglio lo Stato africano e la missione che lo vede laggiù impegnato.

Partiamo dal Camerun. In quale parte del paese opera?
Innanzitutto va precisato che il Camerun si divide tra un Sud più industrializzato, dove si trova la capitale Yaoundé, ed un Nord, dedito prevalentemente all’agricoltura, la cui città principale, Garouà, è sede del vescovo dipendente dall’Arcidiocesi di Milano. Ecco, io sono impegnato in questa regione che, se volessimo azzardare un paragone, per il livello di sviluppo e benessere, ricorda l’Italia di 150 anni fa.


In che senso? Può farci qualche esempio?
La fatiscenza dei servizi è certamente l’aspetto che desta più preoccupazioni. Le strade, salvo la principale che richiederebbe comunque maggiore manutenzione, sono di terra battuta e, a causa del clima tropicale e dell’assenza di una rete fognaria, durante la stagione delle piogge sono soggette ad allagamenti importanti, tanto da formare vere e proprie voragini profonde anche più di un metro. I servizi pubblici, come li intendiamo noi, sono praticamente assenti. Anche quelli destinati allo svago come i cine-teatri, attivi nel periodo della colonizzazione francese, sono ormai chiusi.

E i servizi essenziali, quali scuole e ospedali?
I servizi essenziali sono largamente inefficienti. Le scuole hanno aule sovraffollate con una presenza di 120/130 alunni per classe. Non ci sono testi e scarseggia il materiale didattico, quaderni in primis. La qualità dell’insegnamento è quindi molto bassa ed è per certi aspetti aggravata da un certo modo di fare proprio della mentalità camerunense. Entrando in queste aule potrà capitare infatti di scorgere sul fondo alunni che dormono. Questo succede perché, per chi frequenta, è più importante la presenza dell'ascolto. Dall’altro lato, invece, l’insegnante più è prolisso più, diciamo, afferma il proprio ruolo. E gli ospedali non se la passano certo meglio. Chi vi si reca deve necessariamente essere assistito dai familiari. Mancano le lenzuola che il malato, se ne ha la possibilità, deve portarsi da casa. Costante è la presenza degli insetti. Medicine, flebo o quant'altro serva al paziente non è fornito dall’ospedale ma deve preoccuparsi in prima persona di reperirli con il rischio di non riuscire a fare in tempo qualora le sue condizioni siano gravi. Nonostante la situazione di estrema difficoltà non manca però la solidarietà: nel cortile dell'ospedale dove i parenti cucinano per i propri malati è facile assistere a scene di condivisione.

Il Camerun è stato, fino al 1960, colonia francese. Cosa resta di quel periodo?
Un’impronta culturale fortissima, prima di tutto. Solo per darvi un’idea, il francese, insieme all’inglese, è la lingua ufficiale del paese; gli istruttori dei pilota di caccia sono scelti tra le fila dell’esercito francese. In occasione delle ultime elezioni, l’attuale presidente Paul Biyà si è servito del medesimo consulente che ha curato la campagna elettorale di Hollande. Sono solo pochi esempi che credo, tuttavia, facciano intuire il livello d’influenza a tutt’oggi esercitato. 

Cosa ci dice del Camerun postcoloniale?
Al primo presidente della repubblica camerunense, Ahidjo (1960-1982, musulmano nativo di Garouà), si deve il primo e, purtroppo, unico tentativo di sviluppo. Attraverso quella che potremmo considerare una sorta di riforma agraria, Ahidjo optò per spartire gratuitamente appezzamenti di terre ai contadini, attirando popolazioni anche dalle nazioni limitrofe e dando così involontariamente forma a quella “babele di etnie” (in zona si contano più di 80 dialetti), che convive tuttora pacificamente. Anche perché, per fortuna, nessun gruppo etnico è tanto maggioritario da poter prevalere sugli altri. Ritornando sull’argomento, permane tuttora l'assegnazione gratuita dei terreni (finalizzati al solo sostentamento familiare), i quali, però, vengono ridistribuiti ogni anno. Ciò determina lo sfruttamento intensivo dei terreni stessi, anche mediante l’uso massiccio di fertilizzanti e anticrittogamici. Pratica che si sposa con la radicata mentalità “del vivere giorno per giorno”, non curandosi troppo del futuro e dei suoi tornaconti.

Quali conseguenze sono sorte dall’incontro tra una società così organizzata, e con questa mentalità, e la globalizzazione?
Il fenomeno dell'inurbamento è probabilmente la conseguenza più significativa. L’espansione progressiva delle baraccopoli, nelle zone periferiche delle città, ha prodotto un preoccupante degrado sociale. Desta molta preoccupazione l’alcolismo diffuso, aggravato dall'uso smodato di sostanze più pesanti del classico bilbil, un liquore locale e relativamente leggero ottenuto dalla fermentazione del miglio. L’arrivo della globalizzazione ha comportato un impoverimento dei valori tradizionali e il villaggio, con le sue regole e i suoi ritmi, sembra aver perso quella “capacità di protezione” che riusciva a esercitare fino a non molto tempo fa.

Per quanto riguarda l’esercizio della politica, se c’è qualcosa che ci accomuna allo Stato africano è forse la gestione non proprio specchiata del potere. Negli anni scorsi Transparency International definì il Camerun “lo Stato più corrotto del continente africano”.
Le regalie (non dissimili dalle nostre tangenti) verso i capi dei diversi clan rientrano purtroppo nella logica gestionale del potere e ha radici molto antiche. Quello che fatica a imporsi è un’idea comunitaria che vada al di là degli interessi di pochi e che abbia una prospettiva sul lungo periodo. Invece, senza l’assenso dei capi clan, la cui autorità, come si evince, è molto forte e radicata, lo Stato fatica a muoversi e non è detto che le cose, in futuro, virino al meglio.

In che senso?
L'attuale presidente Paul Biyà, in carica dal 1982, ha oramai 72 anni e le maggiori preoccupazioni sono ovviamente legate alla sua successione. Nonostante la corruzione diffusa, Biyà ha garantito ai suoi concittadini di poter vivere in pace. Il timore è che, con la sua uscita di scena, il Camerun possa conoscere la guerra civile.

Qui in Italia, da un po’ di tempo a questa parte, quando si parla d’Africa, un continente di 54 stati e un miliardo e oltre di abitanti, si parla quasi esclusivamente di barconi. Una sinterizzazione irrealistica per un continente tanto complesso.   
Molto è dipeso e dipende dai mezzi d’informazione. Nelle trasmissioni o telegiornali italiani l’Africa semplicemente non c’è. O è totalmente ignorata o la si considera solo quando oltrepassa i confini nazionali. Questa trascuratezza, frutto di un certo provincialismo, è molto grave se consideriamo che in altri paesi europei il livello d’informazione è qualitativamente e quantitativamente migliore.

Per passare a un argomento che la tocca più da vicino, qual è il rapporto dei camerunensi con la religione?
La regione del Nord è all'80% musulmana, al contrario la popolazione del Sud è prevalentemente cristiano-cattolica. I valori cui gli abitanti fanno riferimento hanno una gerarchia molto precisa. Al primo posto troviamo la FAMIGLIA, segue l'ETNIA e solo dopo la RELIGIONE. Quest'ordine di valori si sperimenta nei rapporti quotidiani ed è fondamentale tenerne conto per la costruzione di una pastorale locale. C'è da aggiungere che la presenza missionaria di un prete diocesano, come me, modifica consistentemente il tradizionale concetto di “missionario”.

Ovvero?
Innanzitutto bisogna dire che su 70/80 sacerdoti presenti in zona, solo 5 sono bianchi. Essendo sottoposti alla guida del vescovo vicario di Garouà, la nostra opera, pur nella specificità locale, non è dissimile dai contenuti della pastorale della nostra diocesi. Per  capirci, si è passati da una missionarietà fondata sulle opere (scuole, ambulatori, oratori, etc.) dei missionari “tradizionali”, a quella di una presenza religiosa facente leva sulla responsabilità, oltre che dei preti, dei laici. I missionari con le loro opere davano, in passato, risposte ai bisogni delle popolazioni locali, non staccandosi così dall'immagine, percepita prima e radicalizzata poi, di un “uomo bianco” come un “essere” a cui chiedere perché capace di dare beni e risposte concrete. Per contro, anche sotto il profilo dell'auto-sostentamento del clero, la capacità di un concreto intervento “caritatevole” deve essere di tutta la comunità locale e deve essere responsabilità della stessa comunità ecclesiale.
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Quindi, se abbiamo compreso bene, a cambiare è soprattutto l’approccio?
Puntare sulla corresponsabilità di laici e clero, come stiamo cercando di fare, non significa comunque abbandonare al loro destino le popolazioni indigene, né tanto meno giudicare con severità l'azione dei primi missionari bianchi. Occorre riconoscere la diversità dei tempi, la diversa composizione dei “pastori” (oggi, in Camerun quasi per la totalità indigeni). Resta come punto di riferimento l'enciclica di Pio XII “Fidei Donum” che sancisce e affida la responsabilità dell'annuncio del Vangelo a tutta la Chiesa universale, e non solo al papa. Così, a fianco dell'istituto delle Pontificie Opere Missionarie (POM, di cui, ad esempio, fa parte il PIME -Pontificio Istituto Missioni Estere-), anche le Chiese locali sono chiamate alla missionarietà. Da parte mia, devo dirvi che è stata proprio questa enciclica ad indirizzare e sostenere il mio attuale impegno che è comunque a termine. Sto imparando a fare il missionario! Sto imparando a passare da una presenza che fa leva sulla capacità d'intervento ad una presenza che condivide. È questa specificità missionaria dell'annuncio del Vangelo, che mi sarà utile anche nei miei impegni futuri (magari in Brianza), che mi fa dire che sicuramente ricevo dall'Africa più di quando le do.

Grazie, auguri e ciao don Gigi       


Andrea Sala e Lucia Grazia Coviello


















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