MACHERIO: UN ANTIDOTO AL VELENO
Gentilissimo Direttore,
rispondo alla domanda che proponi in chiusura del tuo intervento sul numero di ottobre: di
fronte agli “occhi chiusi” con cui (non) si guarda ai drammi umani e alle
sofferenze, ma anche alle speranze, di chi
lasciando i propri paesi , i propri affetti, i propri legami di
vita, cerca un destino migliore, “quale
può essere la funzione di un piccolo giornale senza pretese come il nostro” ?
Una risposta che richiede qualche riflessione e chiarimento preliminari su temi più generali che nel tuo intervento tocchi.
Parto anch’io da una domanda : gli
atteggiamenti “rancorosi”, il clima di ostilità, quel “veleno” - evocato
attraverso la citazione di don Angelo
Casati – che fanno ormai parte del “rumore” quotidiano che avvolge i tanti aspetti, episodi, fatti di cronaca ,
che arrivano sino in una seduta Consiglio Comunale di un piccolo pase come
Macherio, da dove prendono forza e motivazione ? dall’irresponsabilità” di alcuni leader/ministri all’insipienza/ingenuità di piccoli
capigruppi locali quale leva nascosta utilizzano per alimentare e amplificare -
e far passare come normale - il
“cattivismo” verso la presenza tra di
noi di persone che vengono da lontano con il loro “bagaglio” di sofferenze, speranze, attese
tanto diverse dalle nostre ? Tu invochi l’”imbarbarimento morale” e l’”egoismo” che avrebbero ormai preso il
sopravvento in una sorta di circolo vizioso che si autoalimenta e si rafforza.
Ma non basta a spiegare, in gioco ci sono
certamente i valori, gli ideali, i principi che danno forma e contenuto alla
visione del mondo che ciascuno di noi vorrebbe, a cui aspira per sé e per il
futuro dei nostri figli e nipoti. Ma non
basta anche questo “appello” a capire perché al rispetto e alla dignità
dell’essere persona, di tutte le persone in quanto persone, si stanno sostituendo l’astio, l’intolleranza , il
rancore, e mi fermo qui. Si dirà: la minaccia, la sottrazione dei diritti che porta al “prima
gli italiani” , l’insicurezza per le nostre vite private e i nostri denari;
l’oggettività dei numeri , che anche nel tuo intervento richiami, pur smentendo
con l’evidenza tutto ciò non
incide su questo “rumore-rancore” : perché queste sono solo effetti e
non cause, strumenti per alimentarlo non
per spiegarlo.
Il “veleno” viene alimentato dalla parole ma
non prodotto da queste; le parole
rispondono e sono espressione di bisogni , di aspetti più profondi del
nostro modo di pensare e “sentire” che, forse perché negati per tanto, troppo
tempo, quando vengono riportati alla realtà dalle parole ne emergono con una violenza e una forza che
ci sorprendono e sconcertano prevalendo sui valori, ideali, sentimenti umani,
principi, convinzioni etiche, ecc. .
Prevalgono cioè sulla parte di cui ciascuno di noi fatto
ragionevole, “razionale”, ma
anche affettivo-ideale, di ricerca di una realizzazione di sé anche attraverso
relazioni altruistiche e di bene condiviso con gli altri. Con un definizione tecnica M. Recalcati ha
definito tutto questo “pulsione securitaria” ma in sintesi, significa difesa
della propria identità, bisogno di
risposte alla domanda “ chi sono ?” che rassicurino sulle caratteristiche, gli elementi, in cui una
persona si riconosce e riconosce gli altri confermando e conservando il proprio senso di stabilità e continuità .
E’ la debolezza delle risposte che le
persone hanno ricevuto in questi anni ,
la loro incompletezza, che fa scattare la “pulsione”, un bisogno non
controllabile, che ha lasciato spazio a chi invece ha sfruttato questa debolezza e alimenta questo bisogno con parole fatte slogan, trasformate in
messaggi, collusivi e complici che soddisfano forse nell’immediato ma non
riescono a dare un senso a quella ricerca . Una domanda che rappresenta una inclinazione
fondamentale dell’essere umani ma che si trasforma in fondamento di una ”psicologia di massa” negativa – il
“veleno” - quando viene negata nella sua
autenticità, utilizzata e distorta
attraverso risposte che non la riempiono ma la sovrastano, in realtà, negandola
e rendendola muta.
“Un piccolo giornale senza
pretese” può dare un contributo di coerenza con la sua storia e la sua
impostazione : riconoscersi in un
identità condivisa, come persone e come comunità locale, in cui la storia dei
nostri nonni , le piccole o grandi vicende delle persone che condividono questo legame sociale attorno a
un’idea di un bene comune, l’hanno costruita e rafforzata , è entrata a far
parte di un patrimonio condiviso, di un “chi siamo” anche sul piano più personale e
soggettivo.
Questo contributo può continuare
a darlo inserendo nel “racconto” di questa identità condivisa le “piccole o
grandi” storie di persone che vengono da lontano con le loro speranze e i loro sogni, le sofferenze e i dolori da curare o
dimenticare. Raccolgo e rilancio il suggerimento di A.Frances che in un
recentissimo saggio propone di porsi verso quel bisogno securitario con un
atteggiamento empatico senza scivolare in vezzi
di superiorità che allontanano
chiudono ancora di più . Empatia come quella che si coglie
nel racconto delle piccole o grandi
storie come quelle che leggiamo nei volti , nello stare riuniti in quelle “foto d’epoca” in cui cercare di riconoscere i
tratti di una memoria che non si perde, nei racconti
minimi delle vicende delle “famiglie” macheriesi.
Piccole o grandi
storie che facciano percepire che nel
nostro senso d’identità condividiamo la
stessa umanità con persone che, anche se
vengono da lontano o proprio perché diverse dalla nostra cultura e
appartenenza, possono arricchirla ed entrare a farne parte. La Chiesa diocesana milanese ha dato un
esempio di questo approccio concludendo nei
giorni scorsi un Sinodo aperto proprio con questa impostazione : e’ “dalle
genti” che e’ costituita e nella quale si riconosce l’identita e l’appartenenza ecclesiale di una fede che si
fa comunita’.
Non c’è bisogno che mi dilunghi sul perché il “narrare” è una
delle attività che ha rilevanza “ terapeutica” più efficace per chi racconta ma
soprattutto per chi ascolta e legge. Raccontare
le storie dei migranti quindi, perché possano entrare a far parte del “chi
siamo”, magari attraverso una spazio editoriale periodico – una rubrica - rende la risposta “velenosa” a quella pulsione sempre meno efficace e può convincere che la domanda sul “chi siamo” può trovare
risposte ben più rassicuranti perché aperte al futuro, all’idea che il “chi sono”
cambia di giorno in giorno e ha nel condividere l’umanità dell’essere persona la certezza di una
risposta che rende migliore la vita di
tutti.
Aurelio Mosca
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